mercoledì 17 ottobre 2007

Roberto Perrone - la lunga

(Garzanti,2007)Mah,insomma…tutti ne parlavano un gran bene…avevo anche letto l'entusiastica recensione del suo collega al corriere della sera Orrico e mi aspettavo qualcosina di più..bella la parte in cui descrive la trasferta del giornalista sportivo negli anni’70… il viaggio in treno,il pranzo,il taxi chiamato dal proprietario della locanda,la tribuna-stampa,la macchina da scrivere,i pugni sul tavolo dell’inviato-tifoso,i giornalisti che dettano il pezzo alla redazione via telefono con chiamata a carico del destinatario....ottime anche alcune descrizioni della Milano di 40-50 anni fa...però devo dire che tutto il resto è francamente poco esaltante…la caratterizzazione dei personaggi è minima e troppo categorica(l’antagonista,in particolare,non ha mai un briciolo di umanità)anche se l’autore a tratti pare davvero compiacersi della sua bravura(?)…ed anche la storia narrata è francamente poco credibile:le coincidenze presenti nel racconto sono decisamente troppe…le vite di tre persone(il giornalista,il calciatore e l’amministratore delegato)per puro caso si incrociano nel pomeriggio di una domenica del 1973:il giornalista fa la sua prima trasferta in campionato,il calciatore segna i suoi unici 2 gol in serie A di una carriera modesta,il futuro amministratore delegato va allo stadio per la prima volta con i suoi compagni di scuola… e più di trent’anni dopo simultaneamente il calciatore muore in un incidente,il giornalista rischia il licenziamento per onorare la morte di quel calciatore(primo atto di ribellione di una vita passata a controllarsi),ma viene salvato in extremis dall’a.d. che proprio il giorno prima(ma pensa te…)aveva assunto quel ruolo in quel gruppo editoriale,dopo una carriera in tutt’altro ambiente… direi che l’autore ha lievissimamente esagerato…insomma,”La lunga”avrà anche vinto anche il premio forte village-montblanc, ,però,ripeto,mi ha tutt’altro che esaltato…non un brutto libro,per carità,però quella sensazione di maggiore umanità dello sport e del giornalismo dei tempi andati,che l'autore voleva comunicare,è arrivata soltanto a piccoli tratti...

Dal testo

“…..andò alla finestra della cucina e si appoggiò al davanzale.A Giacinto Mortola piaceva restare così,appena alzato.Lo aveva fatto,fin da ragazzo,nella casa dei suoi genitori.Allora s’affacciava dalla sua stanza da letto o dal bagno,che non avevano il terrazzo.Meglio dalla finestra del bagno,che si apriva un orizzonte meno angusto.Stava lì appoggiato e guardava fuori,verso i monti o verso i palazzi in costruzione.In quel periodo,alla fine degli anni’50,c’erano cantieri dappertutto.

Non guardava qualcosa o qualcuno.Non era uno scrutare pettegolo,il suo,da vecchia curiosa.Giacinto Mortola non inquadrava i particolari,non li cercava.Gli interessava l’insieme.

In quel momento,in quel giorno di metà dicembre,guardava giù,verso piazza Salgari e pensava,come gli succedeva ogni mattina,che quella era una piazza di Milano molto bella,quasi parigina.Non era grandissima,c’erano il verde in mezzo,i bistrot,cioè i bar,ai lati,l’edicola,il tram(ecco a Parigi il tram non c’è,ma tant’è).

Secondo Giacinto Mortola in piazza Salgari esisteva un vuoto temporale,una specie di sospensione,rispetto alla frenesia cittadina,che neanche l’imbottigliamento che spesso,da via Carabelli,si ripercuoteva sulla piazza,riusciva a modificare.

Gli piaceva abitare lì e guardare giù,senza vedere nessuno in particolare,solo per il gesto in sé.Forse sarebbe sembrata una stranezza da vecchio,se non l’avesse sempre avuta.Era una specie di attesa con cui ricordava i gesti inevitabili che si compiono a ogni inizio di giornata.Altri uomini come lui,in giro per Milano o per il mondo,facevano qualcosa di simile.Forse.”

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